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I due vagabondi© di Antonio D’Arienzo

tratto da Abstract di La traccia: dal sopralluogo al verdetto, ICP, 2002, A. D’Arienzo

Era una di quelle giornate così grigie e piovose che solo un morto ammazzato poteva renderla nefasta sotto tutti i punti di vista.

Se si fosse trattato dell’omicidio di un bifolco ubriaco, cosa a quell’epoca fin troppo frequente, nessuno se ne sarebbe accorto. Si trattò, invece, di un omicidio di prima categoria che, oltre a suscitare l’indignazione di tutti, mise in moto in brevissimo tempo la temibile macchina della giustizia.

Il cadavere del cavalier Goffredo fu scoperto al calar della sera di quel 18 febbraio 1678, in una lingua di terra che separava il territorio lombardo da quello veneto.

Le campane della chiesetta di pietra, eretta ai margini del villaggio, avevano da poco chiamato a raccolta i fedeli. Accorsero tutti, in frotte, nonostante la tarda ora e una pioggia torrenziale annunciata da un fulmine che aveva spaccato in due l’unico cipresso al centro della radura, proprio ad un tiro di schioppo dalla casa di Dio.

Il sagrestano ce la mise tutta perché le campane non tacessero per un solo istante.

Ci fu un certo fermento quando il Reggente, con ai lati il cicciottello parroco e l’ossuto Capitano delle guardie, si rivolse alla folla urlando così che tutti potessero udirlo: «Il nostro benamato cavalier Goffredo è stato brutalmente assassinato. Non avremo pace finché il corpo dell’assassino non penderà dal più alto albero di queste terre che il grand’uomo onorò col suo prestigio. Se è qui tra voi, si faccia avanti, perché terribili torture l’attenderanno quando saremo noi a smascherarlo, e quel momento è già prossimo: abbiamo in mano l’arma del delitto e sarà facile scovarlo».

In quel mentre si udì lo scalpitio di zoccoli e da lì a poco irruppero nella chiesetta due guardie armate fino ai denti, trascinando un bifolco insozzato di sangue. Giunti dinanzi all’altare, dove il Reggente parlottava col Capitano, lasciarono l’uomo che cadde sulla dura pietra, emettendo un lamento.

«Chi è costui?» chiese irritato il Capitano e uno dei due rispose: «È un vagabondo, ignoriamo chi sia: non sa dirci il suo nome e nemmeno spiegare il perché di quel sangue. Abbiamo appreso dell’efferato delitto e riteniamo che abbia a che vedere con esso».

Il mattino seguente l’uomo si riprese e così riferì: «Passavo vicino ad un capanno quando il latrare dei cani m’indusse a guardare cosa fosse accaduto. Lì vidi il cavalier Goffredo, supino, con un’orribile ferita al capo. Provai a soccorrerlo e fu così che mi sporcai del suo sangue. Respirava ancora. Corsi per la campagna in cerca di soccorso, finché incontrai le guardie a cavallo e invocai il loro aiuto, ma l’emozione ebbe il sopravvento e non riuscii a spiccicare parola».

Nel frattempo si seppe che l’arnese usato per l’omicidio apparteneva allo stalliere. Questi tornava dopo due giorni di assenza dal castello, perché il suo padrone l’aveva inviato in gran segreto a consegnare un plico ad un altro cavaliere del quale, com’ebbe a riferire, ignorava perfino il nome tale era la segretezza dell’incombenza.

Quando giunse nella sua casa, trovò le guardie ad attenderlo. Fu condotto al cospetto del Reggente che, senza fiatare, manifestando in volto il suo disprezzo per tutti quei miseri che aveva attorno, con un dito gli indicò il bifolco.

Non appena il fidato stalliere, ancora in lacrime per la tragica fine del suo signore, vide l’uomo, non ebbe dubbi: «È lui, sì, è lui l’assassino! Ricordo perfettamente quel viso. Si aggirava giorni addietro alla mia partenza vicino le stalle e quando scomparve non trovai più quello strumento che adesso, Eccellenza, vedo in mano al Capitano».

A quelle parole il Reggente non seppe nascondere un sorriso di compiacimento, ma subito si ricompose, arricciò il naso e, sollevando una pergamena che stringeva nella mano sinistra, disse: «Stalliere, hai fatto il tuo dovere per vendicare il tuo padrone. Ora tocca alla Legge fare il resto». Poi con sdegno pose lo sguardo sul bifolco e siccome lo sventurato, singhiozzando, balbettò «No, non è così. Mente! Non sono un assassino», rivolgendosi alle guardie ordinò: «Fate tacere quel cane all’istante!». Quelli ubbidirono.

Il cielo riversò tutta l’acqua che aveva raccolto e il tramonto lo dipinse di un rosso fuoco che colorò ogni cosa sulla terra. Ogni cosa, però, che non fosse già rossa, perché lo spiazzo antistante la chiesetta, adattato a tribunale speciale, non abbisognava degli ultimi raggi di sole per assumere il colore del sangue.

Per quello sfortunato vagabondo il processo fu davvero una farsa. All’imbrunire già pendeva dal più alto albero della tenuta del cavaliere, sia pure in forma incompleta. Il torturatore, infatti, gli aveva asportato un paio di dita, le orecchie, il naso, ma un solo occhio, perché con l’altro potesse assistere alle fasi della sua punizione. Naturalmente, perché con le parole non turbasse la sua opera, gli aveva strappato la lingua, data in pasto ai voraci cani del Reggente, inconsapevoli complici di quei barbari giustizieri.

«Giustizia è fatta!» esclamò il Reggente, soddisfatto della celerità con cui il prode cavaliere fu vendicato.

Qualche secolo dopo, nello stesso luogo, in un piovoso pomeriggio invernale, un uomo corre verso una pattuglia dei carabinieri lungo la statale che attraversa la Lombardia ed il Veneto.

È stravolto e insozzato di sangue e a malapena riesce a riferire di aver visto un uomo, più morto che vivo, supino sul pavimento di un capanno a quasi un chilometro da lì.

Il magistrato di turno l’interroga, ma l’uomo non riesce ad aggiungere nulla di più al suo racconto. È un vagabondo, già noto alle forze dell’ordine per piccoli furti e qualche violenza commessa in stato d’ebbrezza e il suo alito, quando s’imbatte nei carabinieri, certamente non è tra i migliori.

La vittima è già cadavere quando giungono i soccorsi. Si tratta di un noto imprenditore della zona, ammazzato con una grossa chiave a pappagallo che, come s’apprende nel corso delle prime indagini, appartiene all’autista personale dell’uomo. Questi è stato fuori per varie commissioni e non appena viene messo al corrente della tragica fine del padrone, un torrente di lacrime sgorga dai suoi occhi, ma alla vista del vagabondo esclama: «Ma io questo l’ho già notato nei paraggi... come no! Sono certo che è stato lui a portar via quella grossa chiave dal garage! Ricordo perfettamente che prima d’incontrarlo stava appesa al posto suo».

Il magistrato dispone immediatamente una perizia dattiloscopia, richiedendo all’esperto da lui incaricato di confrontare le impronte evidenziate sull’arnese repertato e all’interno del capanno non solo con quelle del vagabondo, ma anche con quelle del “fidato” autista, che non aveva potuto fornito riferimenti precisi su dove si trovasse al momento dell’omicidio.

I tecnici della polizia scientifica di impronte ne rinvengono un’infinità, ma solo qualcuna risulterà del vagabondo. Le altre sono dell’autista, che ammetterà di essersi recato numerose volte in quel capanno, tuttavia non di recente. Le impronte papillari sono invece palesemente recenti, ma c’è dell’altro ad inchiodare l’omicida: viene rilevata anche un’impronta di sostanza ematica lasciata dalla suola di una scarpa dell’autista. Egli non aveva avuto il tempo di eliminare le proprie tracce da quel piccolo abitacolo per l’imprevista irruzione del vagabondo che, sebbene stanco e un po’ brillo, aveva fatto il possibile per salvare la vita all'imprenditore.

Il vagabondo viene prosciolto dall’accusa e riceve dagli eredi dell’imprenditore una lauta ricompensa per il suo disperato tentativo di salvare quell’uomo.

L’infido autista, che invidiava il successo dell’odiato padrone, ha salvo il collo perché non esiste più la pena di morte, ma trent’anni di carcere non glieli toglie nessuno.

Il vagabondo del Seicento avrebbe avuto salva la vita se avessero avuto a disposizione i prodotti che evidenziano le impronte papillari e dei quali, ai giorni nostri, nessun laboratorio di polizia ne è privo. A quei tempi il sopralluogo si fermava dove il visibile cede il passo all’invisibile e in quella circostanza giustizia non fu fatta, ma se quell'errore giudiziario, sebbene non perdonabile, quanto meno è giustificato dall’insufficienza dei metodi di indagine dell’epoca, oggi no, non è ammesso sbagliare.

Le impronte digitali e palmari, come qualsiasi altra impronta lasciata dall’epidermide su un oggetto, non sono le sole tracce invisibili che vanno ricercate nel corso di un sopralluogo. Certamente sono tra quelle più significative per dimostrare il passaggio di una persona in un ambiente. Nel Seicento nessun Capitano delle guardie si sarebbe sognato di andarle a cercare, sebbene la diversità dei fasci papillari da soggetto a soggetto fosse nota da tempi antichissimi. Il problema è che a quell’epoca non esistevano tecniche di rilevamento raffinate come oggi, né i sopralluoghi erano esperiti in modo selettivo e razionale, così da distinguere le tracce certamente riferibili al crimine da quelle lasciate da chissà chi in tutt’altra circostanza.

Non si creda che un embrionale sopralluogo, nel corso del quale si procedesse ad una pur rozza ricerca di tracce, non fosse espletato anche in passato, e nemmeno si creda che la moderna criminalistica si sia sviluppata solo in questi ultimi anni. Indubbiamente, però, le ricerche scientifiche più approfondite nella lotta al crimine hanno conseguito i primi successi agli inizi del Novecento e soltanto di recente c’è stato un salto di qualità che ha veramente dell’incredibile.

Esami più analitici e metodi di ricerca sempre più raffinati consentono di giungere a risultati sorprendenti. Una svolta alla ricerca scientifica applicata alle indagini di carattere giudiziario è stata data dall’impiego di tecniche analitiche nucleari.

La criminalistica e la ricerca scientifica al servizio della Legge sono in continua evoluzione. Quando questo testo avrà varcato la soglia di una libreria, una nuova sperimentazione, un nuovo prodotto, una nuova tecnica, un metodo di ricerca più appropriato consentiranno di evitare un’ingiusta condanna ad un innocente e, del pari, assicureranno alla Giustizia il responsabile di un misfatto.

Antonio D’Arienzo

Consulente del Tribunale di Roma

Investigatore privato

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Sintesi

“ I due vagabondi ” di Antonio D’Arienzo racchiude, tra fantasia e realtà, le storie parallele di due disperati, che avevano in comune l’altruismo, ma che dovettero fare i conti con l’infido servo di un uomo ricco e potente. La prima storia si ambienta nel Seicento, la seconda ai giorni nostri, entrambi in Italia, nella Val Padana.

Il primo vagabondo dovette soccombere alla testimonianza dell’omicida del padrone, e anche il secondo avrebbe rischiato una dura condanna se non fosse entrata in gioco la ricerca delle microtracce, ignorate dall’accusatore che, invece, fu smascherato e riconosciuto colpevole di un efferato delitto. I due vagabondi© di Antonio D’Arienzo

La ricerca di tracce con tecniche sofisticate è solo dei giorni nostri e chissà in quanti, nel passato, subirono gravissime condanne per delitti commessi da altri.

Eppure anche oggigiorno, chi applica la criminalistica con superficialità e scarsa professionalità, rischia di commettere gli stessi errori di quando era sufficiente la testimonianza di un servo infedele per incolpare un innocente di un omicidio che non aveva commesso. I due vagabondi© di Antonio D’Arienzo  I due vagabondi© di Antonio D’Arienzo

Antonio D’Arienzo, consulente del Tribunale di Roma e investigatore privato, ha iniziato da giovanissimo a occuparsi di criminalistica, interessandosi dei più rilevanti casi giudiziari italiani dagli anni 70 in poi. È autore di numerosi articoli e interventi su riviste giuridiche e scientifiche, di trattati tecnico-giuridici, spaziando dall’indagine grafica alla balistica fino all’antroposomatica, e altre opere, romanzi fantastici e noir, questi ultimi ispirati dal contatto professionale col mondo del crimine, in cui ha riversato esperienze, confessioni e testimonianze raccolte negli anni.